E’ vero, certe domande infastidiscono.

Quando gli occhi incontrano qualche bambino che ha qualcosa “che non torna“, e magari sussiste una certa confidenza, possono nascere delle domande per meglio capire.
A volte sono solo occhiate cariche di punti interrogativi, anzi, intere mimiche facciali.
Il secondo step può essere:
Ma…?” Sperando in un pronto intervento della madre che legga il pensiero e risponda ai quesiti più reconditi.
Può esserci la domanda diretta, (e tagliente):
Cosa c’è che non va con tuo figlio?
O il classico:
Ma… è normale?
Ritengo non esista la domanda giusta.
Tantomeno la risposta giusta, perchè tutto dovrebbe essere tarato su una complessa rete di comprensione reciproca.
La motivazione della domanda da parte di chi la pone, posta per conoscere, per capire, per curiosità, o per giudizio; l’interpretazione di quella domanda da parte del genitore, variabilissima dal qui ed ora, dalla sintonia con la persona che si ha di fronte; il significato della risposta, data per far meglio comprendere, per aprire ad una conversazione, per zittire.
Spesso interpretiamo senza entrare in reale empatia con chi abbiamo di fronte.
Una mia amica mi ha detto “spiegare è un gran sbattimento“, e posso concordare, è un gran dispendio di energia, anche perchè si parla di emozioni, di sentimenti, di accettazione, di fatica, e non sempre si è nella condizione di poterlo o volerlo fare.
A volte i figli non hanno una diagnosi precisa, il loro aspetto esteriore non li inserisce in specifiche categorie di ritardo dello sviluppo, e la spiegazione diventa ancora più complessa.
Ma nel caso della sindrome di Down tutto è … più semplice?
Guardo, facies tipica, categorizzo.
C’è chi si accontenta, dopo una sola occhiata ripesca tutta la sua bella strutturina di stereotipi, e volge lo sguardo altrove.
Ma c’è anche chi guarda in modo propositivo, e chi mi dedica quello sguardo viene accolto a braccia aperte.
Personalmente io e mio marito cerchiamo di lasciare un piccolo segno positivo alle varie sfumature di occhiate – penose, imbarazzate, sfuggenti – semplicemente sorridendo, ma quando vediamo che chi ci osserva lo fa apertamente, senza vergognarsi di voler porre delle domande, sicuramente messi a proprio agio da un nostro happy mood, allora il nostro sorriso diventa la nostra storia raccontata.
Qualche giorno fa sono entrata in un supermercato dove non vado molto spesso, mi dirigo ad un bancone con Emma che continua a chiaccherare sul fatto che “può prendere un libro della Masha e Orso, o forse uno della Peppa, per fare i compiti come Tommaso“, ma al mio “no Emma, ne abbiamo preso già uno poco tempo fa” risponde “va bene, guardo solo“.
Lo ammetto, a volte le risposte di Emma lasciano di stucco pure me, ma evito lo scioglimento amoroso di fronte a lei, e le dico “certo, guardalo pure” (anche se non so se la stessa cosa avrebbero detto i direttori del market).
La signora che mi stava passando l’alimento acquistato ci guarda con un’espressione bellissima e un gran sorriso carico di stupore, ammirazione, affetto e apertura alla conversazione.
E tac…! Aggancio avvenuto! Quel genere di aggancio che vale di più di un’occhiataccia scontrosa o di una risposta secca. Mi racconta di sua figlia, del suo trascorso con i bambini dai bisogni speciali, e di cosa quel periodo le ha lasciato dentro.
Ci siamo salutate entrambe con qualcosa dell’altra. E questo è un gran bel dono, a mio parere.
Ma come dicevo la sindrome di Down è quasi semplice da spiegare, per chi vuole ascoltare.  Sempre di più se ne parla, in tv, nel web, e l’immagine inizia a delinearsi in maniera reale e positiva.
E tutte le altre “sindromi o alterazioni o delezioni del“?
Lì c’è meno conoscenza e informazione, e chi osserva può non riuscire a passare a quel primo step di conoscenza proprio perchè non ha parametri sui quali basarsi.
E’ un dato di fatto.
Fortunatamente c’è chi vuole raccontarsi al mondo, proprio per mettere a conoscenza di ciò che ancora non è conosciuto o compreso.
Fortunatamente c’è chi osserva e, libero da gabbie di stereotipi e giudizi, semplicemente accoglie.

Questa bellissima lettera ne è la prova.

Kate, la figlia di Shanell, è affetta da autismo.
Dopo una gita a Disneyland, durante il viaggio di ritorno verso casa, in aereo la bambina era seduta vicino ad uno sconosciuto. Quello che è successo in quel viaggio è documentato in questa lettera di ringraziamento che Shanell, la mamma, sul suo blog “Go team Kate blog” scrive al passeggero seduto accanto alla figlia, lettera pubblicata  sul sito Faith.it.

“Caro Papà,

Non so il tuo nome, ma mia figlia Kate ti ha chiamato “papà” per l’intera durata del nostro viaggio la settimana scorsa e tu non l’hai mai corretta. Infatti, non ti sei tirato indietro perché probabilmente potevi capire che lei non ti stava davvero confondendo con suo padre, ma stava testando la sua fiducia nei tuoi confronti. Se ti ha chiamato così, vuol dire che ha pensato che potevate andare d’accordo.

Ho fatto sedere Kate nel sedile centrale, pur sapendo che ci sarebbe stato uno sconosciuto seduto accanto a lei per tutta la durata del volo . E’ stata una decisione veloce e, conoscendo la mania di Kate di chiudere e aprire la tendina del finestrino, ho pensato che potesse avere un’ossessione in meno se si fosse seduta al centro. Ho visto un’intera squadra di baseball salire sull’aereo e mi chiedevo se sarebbe stato proprio uno di questi giganti a sedersi vicino a lei. Ma si sono diretti tutti verso la coda. Eppure le sarebbe piaciuto. Avrebbe fatto delle osservazioni che avrei dovuto affrontare, ma le sarebbe piaciuto avere a fianco quei giocatori. Ho visto molte donne dall’aspetto rassicurante a bordo e ho sperato che fosse una di queste a occupare quel posto, ma tutte procedevano oltre. Per un attimo ho pensato che sarebbe potuto rimanere vuoto, ma poi ti ci sei seduto con la tua borsa e i tuoi documenti dall’aria importante e io ho avuto una visione, quella di Kate che rovesciava dell’acqua su questi contratti da milioni di dollari, questi atti immobiliari, o di qualunque cosa si trattasse. Quando ti sei seduto, Kate ha cominciato a strofinarsi sulle tue braccia. Le maniche della giacca erano morbide e le piaceva quella sensazione. Le hai sorriso e lei ti ha detto: “Ciao papà, questa è la mia mamma”. Poi l’hai conquistata.

Avresti potuto sentirti a disagio su quel sedile. Avresti potuto ignorarla. Avresti potuto farmi uno di quei sorrisi che tanto disprezzo, quelli che significano “Gestisca vostra figlia, per favore”. Invece non hai fatto niente di tutto ciò. Hai cominciato a chiacchierare con Kate, facendole quelle domande sulle sue Tartarughe Ninja. Lei non poteva risponderti davvero, ma l’hai fatta così innamorare, che manteneva il contatto visivo e l’attenzione sulla tua voce. Guardavo e sorridevo. Ho cercato anche di farti qualche domanda per distrarla, ma tu non volevi distrarti.
Kate: (dopo aver notato che avevi un iPad): È il computer di papà?
Tu: Si, è il mio iPad. Vuoi vederlo?
Kate: Io???? ( Avevo capito che Kate stava pensando che stavi chiedendole di tenerlo)
Io: Guardalo soltanto, Kate. Non è il tuo.
Kate: Che bello!
Tu: (Notando che anche Kate aveva un iPad): Anche il tuo iPad è molto bello. Mi piace quel colore viola.
Kate: Papà, vuoi essere un ragazzo cattivo? ( Porgendoti Shredder, il leader malefico tra le Tartarughe – e questo, amico mio, è un grande premio)
Tu: Fantastico!
Siete andati avanti a lungo e mai mi sei sembrato infastidito. Kate ti ha concesso anche un momento di tregua e si è messa a giocare con Anna ed Elsa, le sue bambole. Gentile da parte sua salvarti dalle Barbie, ma sono convinta che non ti avrebbe dato fastidio nemmeno quello. Scommetto che hai anche tu delle figlie.
Nel caso tu te lo sia chiesto, stava meglio quando siamo scese dall’aereo. Grazie per averci fatto passare avanti. Si sentiva sopraffatta all’inizio e, uscendo, un grande e lungo abbraccio era proprio quello di cui aveva bisogno.
Quindi grazie. Grazie per non avermi fatto ripetere quelle solite frasi che solitamente dico alla gente che incontro quando sono con Kate. Grazie per averla intrattenuta. E per aver messo via le tue cose, i tuoi libri, per passare il tempo a giocare alle Tartarughe Ninja con la nostra bambina”.