Il calcio.
Uno degli sport nazionale italiani più seguiti, a quanto pare.
Non da me.
Ho abitato per 15 anni nella casa adiacente al campo sportivo del mio paese, e mi sono riempita le orecchie, mio malgrado, di parole offensive che i mister gridavano ai ragazzini, o che i genitori lanciavano ai giocatori in campo o all’arbitro, o che i genitori stessi si dicevano a vicenda, sugli spalti, sfindandosi tra loro su chi avesse il figlio giocatore più meritevole.
Nell’ascoltare quelle dinamiche, mi ero fatta una promessa interiore “se mai avrò un figlio… non giocherà a calcio!”
Il calcio mi annoia, indispone, urta il sistema nervoso quando non comprendo le regole di gioco, o sento i compensi inimmaginabili che percepiscono i giocatori o quando vedo le cretinate che alcuni di loro fanno, unite ad un poco senso del valore delle cose, anzi, dei valori di vita in generale.
Ma chi sono io per giudicare? I miei valoro fondamentali sono appunto, personali.
Forse, come spesso accade nel mondo della disabilità, anche nel mondo calcistico esistono stereotipi errati, unitamente a persone che come me si voltano dall’altra parte, per non voler vedere un mondo che in qualche modo stona, o non ci appartiene.

Ero così felice quando Tommaso scelse di fare Judo.

Un gioco individuale, ma di appartenenza ad un Dojo. Due maestri luminosi, per metodo di insegnamento e per scelte personali di vita. Poche gare annuali, a discrezione del bambino, e questo non è da sottovalutare nella scelta di uno sport di un bambino che frequenta una scuola a tempo pieno.
Ma in questi anni la curiosità di Tommaso nei confronti del gioco del pallone, è cresciuta: dapprima i commenti con il papà, sulla loro squadra del cuore, poi i risultati di campionato, il significato delle regole, delle strategie di gioco,  nomi e cognomi dei giocatori imparati a memoria, insieme alle loro nazionalità, alle prodezze compiute.
E poi…
La palla, i guantoni, il muro di casa che ribatte e fa fare tuffi, rovesciate, rullate laterali (si dice così?), ogni minima occasione ideale per giocare.

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Non potevo ignorare questa passione.
Soprattutto non l’ho potuta ignorare quest’estate, durante la quale Tommaso ha giocato ogni giorno contro quel muro, e ha passato ogni pomeriggio a giocare in porta al campetto insieme ai bambini che trovava in spiaggia.

Ho ripensato seriamente al mio credere nell’affermazione “i bambini devono essere felici, non farci felici, e a come spesso ci si riempie la bocca di frasi motivazionali come queste, convinti di metterle in pratica, quotidianamente, e invece restano sepolte sotto le salde strutture personali che ci tengono uniti, nelle quali crediamo fermamente, strutture che una volta minate, ci fanno sentire insicuri, in pezzi.

E così… senza preavviso, senza troppo scegliere il momento giusto (cosa che a volte mi si ritorce contro, ahimè):

Io: “Tommaso… penso sia arrivato il momento di iscriverti a calcio… ti piacerebbe provare?
Tommaso (guizzo di stupore negli occhi, subito placato): “ma mamma… a te, non piace”
Io: “è vero, non lo nascondo. Ma ti ho osservato, e vedo quanto piace A TE giocare, quanto sogni con quella palla tra i piedi, quante scene ti immagini mentre ti tuffi a parare”.
Tommaso (di nuovo quella luce, più consapevole però): “beh… sì…”
E nel lungo abbraccio silenzioso che mi hai dato subito dopo, c’era il fiume di parole che avresti voluto dirmi, forse frenate dalla troppa emozione.

Ho subito chiamato per avere informazioni, predisposto per i documenti necessari.

Da 2 giorni mi racconti le tue aspettative nell’entrare in una squadra, nel sentirti squadra, nel conoscere nuovi compagni, nel provare a giocare in un ruolo che ti senti tuo.
Ti ascolto, bambino mio, e ripenso al significato di accogliere.
Accogliere significa riconoscere l’altro, nel senso di vederlo, di osservarlo e di osservarsi attraverso i suoi occhi. Cosa facile quando si è in risonanza, molto meno quando si stride. Non è ascoltare solo ciò che vogliamo sentire ma anche ciò che ci fa arrabbiare, che ci ferisce, che ci innervosisce, che non condividiamo.
Accogliere significa agire per andare oltre, senza imporre noi stessi e il nostro pensiero.

E così… Tommaso… farai il portiere!

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