Un incontro particolare con Zorro, ragazzino con sindrome di Down.

Aprile. Voglia di primavera, di fiori, di profumi, di colori.

Vado a comprare dei fiori insieme alla mia amica Katia, in un vivaio dove mi reco spesso. Ci sono  Emma e Tommaso, al quale il proprietario, “nonno Giovanni”, offre sempre la cioccolata calda. Tommy corre in giro curioso, come spesso gli accade di fare in questo posto tanto affascinante, quasi fosse una foresta tropicale. Nel reparto delle piante grasse mio figlio sfoggia le sue nuove scarpe da ginnastica, che ad ogni suo salto si accendono con una lucina intermittente, (destinata a durare assai poco ahimè) e tutto questo suo saltare attira l’attenzione di una nonna, seduta su di una panchina con il nipote, in attesa che sua figlia venga servita. Ad un occhiata più approfondita mi accorgo che il nipote ha la sindrome di Down, e attirata come la mosca sul miele, mi avvicino, felice di sentire questa nonna che descrive con dovizia di particolari tutto ciò che accade intorno. Mi pregusto un incontro particolare, positivo, dal quale posso ricavare un insegnamento, vedendo questa nonna tanto attenta.

Nonna: “Hai visto D., che belle le scarpine di quel bambino… fanno le luci!”.

D. sembra un po’ distante, ma vedendo questa estranea avvicinarsi, cioè io, sembra essere più incuriosito. Non so come la nonna interpreta questo mio approccio, ma dopo un occhiata diffidente inizia a parlare con me.

Io : “Ciao… io sono Daniela, come ti chiami?

E D.: “Zorro!”.

Io: “Oh ma che bel nome hai! Ma è proprio Zorro che penso io…?”

Nonna: “Ma cosa dici, basta con questo Zorro, dì alla signora come ti chiami!”.

Davide: “Zorro!”.

Nonna: “Ma smettila, non fare lo stupido… sa signora, mio nipote ha la sindrome di Down, non capisce…”.

Brivido…

Allora le confido che anche io sono mamma di una bambina con la sindrome di Down, e che ha solo pochi mesi. Katia, che si sta coccolando Emma in braccio, la gira, tutta orgogliosa, verso la signora.

Nonna: “Com’è carina, non si vede che ha la sindrome”. “Allora, glielo dici come ti chiami?”.

Davide “Zorro!”.

Nonna: “Certo che sei testardo eh? Ti chiami D.!”.

Io: “Beh, signora… magari oggi ha voglia di essere semplicemente Zorro, che c’è di male?” e sfiorando i mille braccialetti di plastica colorata infilati al polso di D., dico: “che belli i tuoi braccialetti, sono proprio tanti!”.

D. giustamente non apprezza questa mia intrusione nel suo spazio, questa mia carezza inappropriata, e mi da uno schiaffetto sulla mano, guardandomi con aria di sfida.

Ho ancora nelle orecchie il suono della sberla che la nonna gli ha dato in pieno volto.

Sciaff.

Il classico ceffone da film, quello che ti costringe a mettere subito la mano per consolare la guancia colpita. Ricordo come il mio respiro mi è morto in gola per lo stupore, ma soprattutto per il dolore che questo gesto ingiustificato mi ha causato. Ricordo come Katia, vedendola con la coda dell’occhio, ha stretto a sè Emma, quasi per proteggerla.

Nonna: “Anche lui da piccolo era bravo, ora è un disastro. Non ascolta, non collabora. È cattivo”.

“Vedrà!”.

E quasi lanciandomi questo anatema, se ne va, strattonando D. per il braccio, che continua a ripetere “sono Zorro!”.

Ancora seduta sulla panchina, mi giro verso Katia, con gli occhi lucidi. Lei scuote la testa, triste, e bacia Emma.

Un attimo dopo passa davanti a noi, con passo frettoloso, una donna, che era al bancone ad ordinare una confezione floreale, a non più di due metri da noi. Non è mai intervenuta nella nostra discussione di circa dieci minuti. Ci supera con il capo chinato, e mi lancia un occhiata veloce, superficiale. In quello sguardo registro vergogna, rabbia, indifferenza.

È la mamma di Zorro.