C’era una volta, alla settimana estiva di Guardaconilcure, una famiglia piccola piccola, schiacciata dalle proprie paure.
Tra le braccia teneva una piccola bambina dagli occhi a mandorla, per mano un fratellino più grande. Piccoli erano i loro passi all’ingresso di quel posto che li avrebbe accolti per 9 giorni. Corti i loro respiri. Tesa la loro postura.
Grandi erano i loro occhi mentre si osservavano attorno. Colmi di sguardi che chiedevano “svuotami” ma allo stesso tempo “riempimi”.
Non facile essere dove avevano deciso di essere, investiti di continuo da emozioni alle quali era difficile dare un nome. Non facile sedere in quel cerchio, messi a nudo, liberi di o forse costretti a ricontattare quel dolore. Il ricordo di quel primo momento nel quale erano diventati genitori di un bambino con la sindrome di Down. Quella ferita era ancora umida di lacrime, o ricucita con punti leggeri, e a toccarla, nuovamente sanguinava.
Ma a quelle parole liberate seguiva un primo respiro, che faceva uscire dall’apnea. E gli occhi delle persone che li guardavano in quel cerchio, empatici e veri, erano specchio che restituiva aria. E le parole che venivano loro donate erano medicina su quella ferita.
Non c’era abito, tipo di lavoro o provenienza che facesse sentire poco accolti. Ognuno in quel cerchio era diverso e allo stesso tempo uguale. Ogni parola risuonava nella mente altrui, scavando e riportando a galla, facendo produrre pensieri ramificati che si aggrappavano l’un l’altro. Forse qualcosa prendeva chiarezza, o forse restava ancora un groviglio, ma era tangibile. Qualcosa si stava trasformando.
E con il passare dei giorni quella piccola famiglia capiva che poteva tendere la propria mano, perchè sarebbe stata accolta da un’altra mano calda, accogliente e non giudicante. Che quelle persone sentivano davvero cosa avevano o stavano provando. Che quelle professioniste suggerivano strategie con delicatezza, nel rispetto di ciò che loro erano in quel preciso momento della loro vita.
E nei pomeriggi insieme, dapprima distanti e diffidenti, si ritrovarono a voler accorciare quello spazio verso l’altro. Verso le persone che sentivano più affini, ma anche verso coloro che sentivano tanto discordanti.
Perchè è nella diversità che possiamo scoprire altro di noi stessi.
E grazie al gioco, che fa muovere o non muovere il corpo, perchè carico della propria storia personale, sentirono quella tensione sciogliersi. E si ritrovarono a ridere. Non degli altri, ma di se stessi, toccando con mano una leggerezza che da tempo non avvertivano.
E i loro sguardi iniziarono ad essere meno sfuggenti e più quieti, perchè si vedeva che si era creato dello spazio. Spazio dentro. Uno spazio aperto che poteva essere riempito di cose buone. Che scaldano l’anima e fanno sentire bene.
E quella famiglia piccola, forse ora non più così piccola, iniziava a capire che c’era spazio anche per il fratellino, che così spesso camminava un po’ più indietro. Quasi capisse che gli occhi di mamma e papà dovevano essere più per quella sorellina bisognosa di cure e di risposte. E lì, in quei giorni, anche lui si poteva sentire protagonista.
Perchè lì ognuno aveva il suo spazio. Il proprio tempo di qualità.
E anche lui poteva avere mamma e papà tutti per se.
E la famiglia, allungando lo sguardo, scopriva che c’erano dei ragazzi che erano venuti per prendersi cura dei loro figli, ma anche un po’ di se stessi.
C’era una volta una famiglia, alla quale forse il tempo in quei 9 giorni sospesi è volato, o è passato lento lento. Forse le aspettative sono state superate o non raggiunte. Solo quella famiglia può mettere le giuste parole, perchè l’ha vissuta al meglio delle sue possibilità.
Io da tempo ho smesso di pensare alla prestazione. Al voler proporre una settimana perfetta per tutti, nessuno escluso. Quasi a voler io stessa dimostrare il mio valore. Questa sono oggi, e ho deciso di non snaturarmi per far apprezzare ciò che propongo. Egoisticamente vivo la settimana come una potente ricarica di interelazioni, portando indelebile un pezzettino di ognuno dentro di me. E questo mi fa stare bene.
Pezzettino che ogni volta si incastra nel colorato mosaico del mio essere.
E in quella valigia che ogni famiglia si è portata a casa, può leggere cosa gli altri hanno visto. Certa che quelle parole sono sincere. Perchè solo quando ci si mostra trasparenti, per quello che si è realmente, l’Altro diventa il nostro specchio.
Uno specchio che mostra ciò che siamo. O ciò che potremmo essere. Non cambiando, ma trasformando una piccola parte di noi.
Ad ognuna delle 99 meravigliose anime che ho incontrato a Lignano. Grazie per esservi mostrate in quello specchio.