Impossibile per me non scrivere oggi, 21 marzo 2021 Giornata Mondiale Sindrome di Down.

Dopo un lungo tempo nel quale la mia concentrazione è stata, anzi è riservata ad altro, (e di questo ne vado fiera), eccomi qui, sul mio divano, pronta a scavare dentro. Computer portatile sulle gambe, copertina, musica dell’anima nelle cuffie. Mettetevi comodi, perchè prevedo un fiume di parole.

Questa giornata, da 11 anni oramai, ha un significato particolare. Da quando mia figlia Emma è nata con la sindrome di Down e con lei ha portato questa opportunità di vita.

Mi preparo mentalmente a questa data, il 21 marzo, in anticipo. Penso a registrare un video d’impatto, penso a fare delle foto strepitose, penso a comunicare un messaggio che scavi e resti indelebile.

Da tempo ho però trasformato quel “devo” in “posso”.

Da tempo ho trasformato quel “lettori vi voglio mostrare” in “lettori questo semplicemente siamo“.

 

Penso che ancora un po’ ci siano più Giornate Dedicate a Qualcosa che giorni dell’anno. E che dietro a queste Giornate di sensibilizzazione manchi la reale consapevolezza di cosa si stia festeggiando.
Penso ad un post con lunghi pensieri articolati, che parlino di integrazione e pari opportunità, ma potrei parlare solo della situazione che vive mia figlia.

E allora penso proprio alla nostra normalità, e a cosa ognuno di noi, quotidianamente, fa per aiutare Emma a crescere. Potrei aggiungere Emma come Tommaso, perché non so come crescerà mio figlio maschio, oggi 15enne, nato con 46 cromosomi. Ma è Emma ad avere una condizione genetica che, ne sono ben consapevole, ha un suo peso.
E io parto proprio da questo.

Di cosa ha bisogno mia figlia, nata con la sindrome di Down?

La disabilità è così spesso vista come un limite, come un marchio che categorizza e rende prevedibile la persona che lo porta.
Hai una disabilità?
Allora vali meno, non rientri nella norma, non puoi arrivare a fare, vieni descritto con aggettivi che parlano della tua condizione, anzi, che investono la tua intera persona, etichettandoti.
A vita.

Oggi, come in altre occasioni di particolare riflessione, volo a quel 14 febbraio in cui nacque Emma, e a tutta la lista di aggettivi/sostantivi sminuenti e dolorosi che mi venivano alla mente, pensando alla mia bambina e a me, mentre cercavo di superare lo shock.

Molti iniziavano con il prefisso -in.
Impossibile.
Ignoto.
Indifesa.
Incapace.
Inadatta.
Infelice.

Quante persone ho conosciuto in questi 11 anni.
Quanta strada abbiamo fatto, strada di cuore, di mente, di pelle che prende nuova forma. Di anime affini che si incrociano, perchè forse era destino avvenisse. Di legami indissolubili, che all’idea di non essere coltivati, soprattutto quest’anno, ti manca quasi l’aria.

Guardaconilcuore, da quando ha preso vita, questo vorrebbe fare. Cambiare gli occhi della gente, re-imparando a guardare oltre l’aspetto esteriore delle persone. Assaporarne la vera forza vitale.

Lo so, non è semplice, e non è da tutti.

Ancora ci sono persone che all’affermazione “ho una meravigliosa bambina con sindrome di Down” si stringono nelle spalle, sorridono a denti stretti, restano spiazzati.
Ma credo fermamente che un sorriso sincero, a sostegno dell’affermazione appena fatta, lasci il segno.

Ancora ci sono persone che nel nome del sentimento affetto e cura producono e concedono comportamenti che parlano di discriminazione. Nel senso buono del termine, se un senso buono c’è. Ma io so che dietro il sorriso dell’anziana signora del paese, o della cassiera del supermercato, o dell’infermiera che coccola, c’è quel buono che scalda il cuore.

Se non altro scalda il cuore di Emma.

E dunque, chi sono io mamma per usare termini come combattere e lottare, e scagliarmi contro chiunque non abbia un comportamento a mio parere adeguato per considerare mia figlia 11enne come andrebbe considerata? Questo è il “qui ed ora” di quelle persone. E ho da tempo compreso la differenza tra quando parla il mio ego e quando la mia anima.

Ma… di cosa ha bisogno mia figlia, nata con la sindrome di Down?

Questo è il mio personale pensiero.

Ho sempre preferito vedere le risorse di mia figlia piuttosto che le mancanze. Lo stesso faccio con tutti i bambini che per lavoro vedo ogni giorno nella sala di psicomotricità. E’ uno sguardo, un atteggiamento, una continua reciproca risonanza che amplifica, dona sicurezza, sedimenta nel qui ed ora.

B. Aucouturier, (la mia formazione segue il suo pensiero) dice:

Io non so come tu evolverai, ma conosco le condizioni che ti permetteranno di evolvere nel miglior modo possibile “.

Ma quali sono le condizioni che permettono ai nostri figli di evolvere?

Prima della scuola, prima dell’istruzione, prima del mettere dentro. Il cambiamento, è necessario, e dovrebbe avvenire il prima possibile in una nuova realtà di vita con la disabilità.

Dovrebbe partire dalla comunicazione della diagnosi fatta in ospedale, data da persone competenti, soprattutto in materia di empatia. Dovrebbe avvenire in un luogo appropriato, evitando di pronunciare quella frase che non favorisce un processo di accettazione nei confronti di un bambino con disabilità:
mi dispiace…“.
Chi lo dice ha una divisa, e in quella divisa noi riponiamo fiducia. Nel bene e nel male.

Dovrebbe partire dagli amici, che è bene si guardino dentro prima di avvicinarsi o allontanarsi dalla famiglia nella quale è appena nato un bambino con la sindrome di Down.
Cosa posso dire? Quali frasi mi vengono in mente… e se fossero rivolte a me, che emozione susciterebbero? Cosa risveglia in me questa sensazione che non mi permette di stare loro vicino?

Ma il cambiamento più grande dovrebbe partire innanzitutto dalla famiglia. Da qualsiasi suo componente.

Dai genitori, che si sentano legittimanti ad essere arrabbiati, o delusi, o inadeguati, ma propensi a chiedere aiuto. E’ una questione di responsabilità. Come è possibile che ci affidiamo di continuo a dottori che curano i mali fisici ma siamo ancora restii a rivolgersi a qualcuno che curi il male dell’anima?

Ogni giorno, ci si dovrebbero porre questa domanda: se tu non avessi la sindrome di Down, bambino mio, mi comporterei in maniera diversa? A mio parere la sindrome di Down non dovrebbe essere vista come un mostro da combattere, e nostro figlio non come un contenitore da riempire. Educare deriva dal latino ex-ducere e significa tirare fuori ciò che c’è dentro: chi siamo noi per reputare che ciò che c’è dentro è troppo poco? Come posso permettere a quanto c’è dentro di uscire? La risposta è la stessa per chi di cromosomi ne ha 46: fare esperienza. Ma parlo di esperienze spontanee in un confine che da sicurezza. Parlo di un insieme di atteggiamenti che vanno pensati, affinati e proposti affinchè il bambino si senta capace di scegliere. Capace di creare strategie che si consolidino e creino la sua forma di persona pensante

E so bene non essere semplice.

Io genitore amo mio figlio, ma inconsciamente mi adatto a lui perchè ha una disabilità.

Con tutto il mio amore, mi sostituisco a lui nei gesti perchè grossolani.
Riempio le attese alle sue risposte con mie parole, perchè non posso aspettare così tanto… d’altronde parla in maniera non del tutto comprensibile.
Concedo atteggiamenti da piccolo tiranno perchè hai una disabilità cognitiva:

  • nel decidere quando e cosa mangiare, a discapito degli altri commensali e nel rispetto di chi ha cucinato;
  • nel concederti un secondo dolce a fine pasto perchè nutrire è amore;
  • nel guardare solo i tuoi programmi preferiti perchè ti piacciono tanto;
  • nel chiedere a tuo fratello di badare a te perchè tu hai più bisogno, quasi il tempo dedicato ai figli si dividesse  in base alle esigenze di ognuno;
  • nel non allenarti all’attesa! Attendere è creare uno spazio nel quale desiderare ciò che sta per arrivare.

E allora come noi genitori ci evolviamo?

Ascoltandoci, dando un nome a ciò che sentiamo, lavorandolo, trasformandolo. Perchè per accogliere i nostri bambini con disabilità è necessario svuotarsi, fare posto dentro di noi.

Siate sempre in ricerca, ma all’inizio non di strumenti riabilitativi, bensì di formazioni che vi permettano di risolvere le vostre personali ferite.

Corsi, serate formative, punti di vista differenti per arricchire di strategie il vostro essere genitori.

Non andate sulla difensiva se guardano vostro figlio. Rispondete alle domande dei bambini su particolari caratteristiche che notano. Organizzate incontri per parlare di unicità. Trasmettete le vostre passioni ma concedete ai vostri figli la frustrazione di un NO che resti no. Coltivate il vostro sorriso, prendete del tempo per voi: nella distanza da noi i nostri figli hanno modo di sentirsi soggetti di pensieri e azioni.

Lasciate che i vostri figli siano felici, e non che vi rendano felici.

Leggete, ascoltate, fate domande. Allenatevi ad essere il meglio per i vostri bambini.

Perchè se voi mostrerete loro il vostro meglio, loro si sentiranno liberi di fare altrettanto.
Difficile? Certamente, ma non impossibile.

Ma d’altronde un sentiero si traccia camminando.