Gli spot per celebrare la Giornata Mondiale sulla Sindrome di Down quest’anno sono numerosi.

Io mi preparo mentalmente a questa data, il 21 marzo, con circa due settimane in anticipo.
Penso a registrare un video d’impatto, ma so a malapena incollare foto e video con Imovie (e senza musica di sottofondo).
Penso a fare delle foto strepitose, ma oramai riutilizzo la mia reflex in modalità automatica.
Penso che ancora un po’ ci sono più Giornate che giorni dell’anno, e che dietro a queste Giornate di sensibilizzazione manchi la reale consapevolezza di cosa si sta festeggiando.
Penso ad un post con lunghi pensieri articolati, che parlino di integrazione e pari opportunità, ma potrei parlare solo della situazione che vive mia figlia. A scuola, nello sport, e nella sua quotidianità.

E allora penso proprio alla nostra normalità, e a cosa ognuno di noi, quotidianamente, fa per aiutare Emma a crescere. Potrei aggiungere Emma come Tommaso, perchè non so come crescerà mio figlio maschio, oggi 13enne, nato con 46 cromosomi. Ma è Emma ad avere una condizione genetica che, ne sono ben consapevole, ha un suo peso.
E io parto proprio da questo.

Di cosa ha bisogno mia figlia, nata con la sindrome di Down?

La Campagna 2019 di Coordown punta a scuotere le coscienze, denunciando quanto sia ancora lontano l’obiettivo di piena parità di diritti e opportunità per tutte le persone con sindrome di Down.

A me lo spot non è piaciuto gran che. Non l’ho trovato amplificante come al solito, amplificante di quel senso di possibilità che negli altri video è spesso stato mostrato. La sensazione che mi rimane alla fine è un senso di chiusura: per un macro cambiamento si deve interventire dall’alto. Eh già. Facile a dirsi.
A farmi capire meglio ci ha pensato Loretta, di cui riporto il pensiero.

Loretta Pavan, amica, fondatrice del metodo Paps (programma di arricchimento pre-strumentale basato sul metodo Feuerstein) e Specialista alle mie Settimane Estive per Famiglie con bambini con la sindrome di Down afferma:

Personalmente credo che fino a quando la Scuola non finirà di portare i nostri figli nelle aule di sostengo giustificandosi con svariati e assurdi motivi, fino a quando non si smetterà di confondere il Piano Didattico Individualizzato con il Piano Didattico Individuale spacciandolo per giusto, fino a quando non si finirà di essere contenti che SOLO il 15% dei nostri ragazzi trovi un lavoro, che ancora non si usi la parola Down per offendere, dovremmo stare attenti.

L’Italia ha una normativa a tutela dei nostri figli migliore del mondo. Perchè allora dobbiamo batterci per le ore di sostegno? Per la continuità didattica, per avere i testi semplificati, perchè si smetta di chiamarli ragazzi quando hanno raggiunto un’età che con l’essere ragazzo non ha più niente a che vedere? Per fare in modo che nelle stazioni i tabelloni con gli orari siano leggibili da TUTTI i nostri ragazzi, non solo dai pochi che hanno un ritardo lieve. Per permettergli di andare per il mondo liberi, senza paura che la loro fragilità sia causa di impedimento o di dolore. La strada è ancora lunga, anzi, lunghissima e faticosa e se si vuole avvicinarsi alla meta bisogna ricordarli questi problemi, pensando a tutte le persone con la sindrome di Down, non solo a quelle più fortunate. La libertà, la possibilità di autodeterminazione, NON devono essere solo una questione di fotuna. Noi possiamo fare molto, non solo per i nostri figli ma anche per quelli che verranno.

Ma…

Di cosa ha bisogno mia figlia, bambina con la sindrome di Down?

Altro spot, altro tipo di messaggio. Lo spot di AIPD, Associazione Italiana Persone Down, lanciato per i 40 anni dell’Associazione. Parla di quanti reali traguardi sono stati raggiunti in questo lasso di tempo, dalle persone con trisomia 21. Indubbiamente lo spot risuona meglio con le mie corde emotive.

Ma…

Di cosa ha bisogno mia figlia, nata con la sindrome di Down?

Questo è il mio personale pensiero.

Ho sempre preferito vedere le risorse di mia figlia piuttosto che le mancanze. Lo stesso faccio con tutti i bambini che per lavoro vedo ogni giorno nella sala di psicomotricità. E’ uno sguardo, un’atteggiamento, una continua reciproca risonanza che amplifica, dona sicurezza, sedimenta nel qui ed ora.

B. Aucouturier, (la mia formazione segue il suo pensiero) dice:

Io non so come tu evolverai, ma conosco le condizioni che ti permetteranno di evolvere nel miglior modo possibile “.

Ma quali sono le condizioni che permettono ai nostri figli di evolvere?

Prima della scuola, prima dell’istruzione, prima del mettere dentro. Il cambiamento, è necessario, e dovrebbe avvenire il prima possibile in una nuova realtà di vita con la disabilità.

Dovrebbe partire dalla comunicazione della diagnosi fatta in ospedale, data da persone competenti, soprattutto in materia di empatia. Dovrebbe avvenire in un luogo appropriato, evitando di pronunciare quella frase che non favorisce un processo di accettazione nei confronti di un bambino con disabilità:
mi dispiace…“.
Chi lo dice ha una divisa, e in quella divisa noi riponiamo fiducia. Nel bene e nel male.

Dovrebbe partire dagli amici, che è bene si guardino dentro prima di avvicinarsi o allontanarsi dalla famiglia nella quale è appena nato un bambino con la sindrome di Down.
Cosa posso dire? Quali frasi mi vengono in mente… e se fossero rivolte a me, che emozione susciterebbero? Cosa risveglia in me questa sensazione che non mi permette di stare loro vicino?

Ma il cambiamento più grande dovrebbe partire innanzitutto dalla famiglia. Da qualsiasi suo componente.

Dai genitori, che si sentano legittimanti ad essere arrabbiati, o delusi, o inadeguati, ma propensi a chiedere aiuto. E’ una questione di responsabilità. Come è possibile che ci affidiamo di continuo a dottori che curano i mali fisici ma siamo ancora restii a rivolgersi a qualcuno che curi il male dell’anima?

Ogni giorno, ci si dovrebbero porre questa domanda: se tu non avessi la sindrome di Down, bambino mio, mi comporterei in maniera diversa? A mio parere la sindrome di Down non dovrebbe essere vista come un mostro da combattere, e nostro figlio non come un contenitore da riempire. Educare deriva dal latino ex-ducere e significa tirare fuori ciò che c’è dentro: chi siamo noi per reputare che ciò che c’è dentro è troppo poco? Come posso permettere a quanto c’è dentro di uscire? La risposta è la stessa per chi di cromosomi ne ha 46: fare esperienza. Ma parlo di esperienze spontanee in un confine che da sicurezza. Parlo di un insieme di atteggiamenti che vanno pensati, affinati e proposti affinchè il bambino si senta capace di scegliere.

E so bene non essere semplice.

Io genitore amo mio figlio, ma inconsciamente mi adatto a lui perchè ha una disabilità.

Con tutto il mio amore, mi sostituisco a lui nei gesti perchè grossolani.
Riempio le attese alle sue risposte con mie parole, perchè non posso aspettare così tanto… d’altronde parla in maniera non del tutto comprensibile.
Concedo atteggiamenti da piccolo tiranno perchè hai una disabilità cognitiva:

  • nel decidere quando e cosa mangiare, a discapito degli altri commensali e nel rispetto di chi ha cucinato;
  • nel concederti un secondo dolce a fine pasto perchè nutrire è amore;
  • nel guardare solo i tuoi programmi preferiti perchè sei piccolo;
  • nel chiedere a tuo fratello di badare a te perchè tu hai più bisogno… quasi il tempo dedicato ai figli si dividesse  in base alle esigenze di ognuno;
  • nel non allenarti all’attesa! Attendere è creare uno spazio nel quale desiderare ciò che sta per arrivare.
    Questo esempio nasce da una cena a casa dei nonni. Mio padra adora Emma, ma se fosse sua figlia, credo sarebbe un tantino diversa dalla Emma che vedo ogni giorno.

E allora come noi genitori ci evolviamo?

Ascoltandoci, dando un nome a ciò che sentiamo, lavorandolo, trasformandolo. Perchè per accogliere i nostri bambini con disabilità è necessario svuotarsi, fare posto dentro di noi. Siate sempre in ricerca, ma all’inizio non di strumenti riabilitativi, bensì di formazioni che vi permettano di risolvere le vostre personali ferite. Corsi, serate formative, punti di vista differenti per arricchire di strategie il vostro essere genitori.

Non andate sulla difensiva se guardano vostro figlio, rispondete alle domande dei bambini su particolari caratteristiche che notano, organizzate incontri per parlare di unicità, trasmettete le vostre passioni ma concedete ai vostri figli la frustrazione di un NO che resti no. Coltivate il vostro sorriso, prendete del tempo per voi: nella distanza da noi i nostri figli hanno modo di sentirsi soggetti di pensieri e azioni. Lasciate che i vostri figli siano felici, e non che vi rendano felici. Leggete, ascoltate, fate domande. Allenatevi ad essere il meglio per i vostri bambini.

Perchè se voi mostrerete loro il vostro meglio, loro si sentiranno liberi di fare altrettando.
Difficile? Certamente, ma non impossibile.
Proprio come nei video che ho riportato.

Ma d’altronde un sentiero si traccia camminando.