Quando ho conosciuto Cinzia virtualmente, mi aveva colpito il suo nome, anzi, il suo lungo doppio cognome.
Poi un messaggio privato, dove si presentava a me, cosa che non molti fanno chiedendomi l’amicizia su Facebook (ahimè).
Anche in quell’occasione mi ero incuriosita, come mi capita con certe anime affini che ho la fortuna di conoscere grazie alla presenza di una bambina con sindrome di Down in famiglia.
Poi l’incontro alla settimana estiva del dott. Lagati a Bibione, il suo presentarsi a me quasi in punta di piedi, con una dolcezza e sicurezza che mi hanno subito conquistato.
Ho guardato i suoi genitori sorridenti, sentito una sorta di riconoscenza e aspettativa nella forte stretta di mano del suo papà, e poi ho visto lui. Emanuele, un meraviglioso piccolo bambino di poco più di 1 anno.
I suoi occhi a mandorla erano enormemente a mandorla, non perchè portasse tratti della sindrome di Down particolari, ma perchè era un continuo strizzarli per quanti sorrisi regalasse.
“Ecco”, ho pensato ” ecco come dovrebbe sorridere ogni bambino che si sente amato. Sorridere con tutto se stesso, e irradiare attorno a lui luce gialla, pulsante e palpabile. Contagiosa”.
Dovrebbe sorridere così ogni bambino che nasce per una scelta d’amore. Può arrivare inaspettatatamente, può stravolgere il mondo di chi lo accoglie, può far fare i pensieri più bui, rifiutanti e dolorosi, ma leciti, perchè è proprio grazie a quel dolore che una famiglia può, in molti modi, rigenerarsi.
Singolare il significato di tale termine…. rigenerare.
“Formare nuovamente, da parte di un organismo, parti cadute o amputate. ”
“Far ritornare qualcosa o qualcuno in efficienza”.
“Recuperare un prodotto, attraverso specifica lavorazione, restituendogli le sue proprietà originali”.
“Rinascere a nuova vita”.
Tutti significati calzanti per descrivere come si sente un cuore, in occasione di una diagnosi di disabilità, e sue successive trasformazioni… non vi pare?
Assaporatevi il racconto di Cinzia. Lo descrive perfettamente, condito con la giusta emozione, come piace a me.
Ecco per il tuo dono Amica mia.
Nel giorno del tuo compleanno.
Nel giorno in cui tuo figlio ti ha disegnato sul volto un po’ corrucciato un sorriso con le dita.

Grazie col cuore.

 sindrome di down

 

Ero una ragazzina di 26 anni quando ho deciso di cambiare radicalmente la mia vita: una vita “normale”, un lavoro vicino a casa, a tempo indeterminato, la kick-boxing, delle amicizie consolidate, il vivere in casa dei miei genitori tranquilli, una casa grande ed accogliente … insomma nessun problema vero, una vita ovattata senza grandi pretese.
E poi la pazzia: fare le valigie (tante… troppe…) e partire per inseguire il proprio amore che viveva in Germania… proprio io che alle superiori avevo il 5 perenne in tedesco e lo odiavo. Ma si sa, la vita è proprio strana… e dopo un inizio difficile, perché non è stato semplice far crescere la bambina che era in me, io e Roberto abbiamo cominciato a percorrere le tappe che ogni coppia fa: conoscersi, sposarsi, litigare, far pace, far progetti e poi “pensare di metter su famiglia”.
Ovviamente la ragazzina era un po’ cresciuta, ma aveva sempre quel timore di sbagliare, un senso di inadeguatezza onnipresente.
Fine Agosto 2014.
Il ginecologo era stato chiaro quando avevamo deciso di sospendere il contraccettivo:
“Signora, di solito passano almeno 6 mesi prima di poter concepire, si rilassi e non si dia un traguardo categorico”.
“Ok” avevo pensato “allora posso dedicarmi alla corsa”, sport che ho scoperto essere adatto alla mia natura, uno sport che volendo si può fare in solitaria, senza dover parlare, e dato che avevo fatto la mia prima mezza maratona a Milano, dopo 15 giorni un’ altra e mi sentivo una scarpa da running in carne e ossa, mi sono iscritta a ben 3 mezze maratone, come traguardo mi ero prefissata la mezza a Parigi a marzo 2015.
Fico no?
Metà novembre 2014.
Durante un weekend in Italia scopro di essere incinta.
Felice come una pasqua, dimentico tutti i progetti per dirlo a Roberto: lo striscione “e se prima eravam in 2 ora sarem in 3” in fondo all’armadio, i 300 “0,01” con conseguenti 299 “+” e un “=” ritagliati nelle serate a casa da sola. Telefono a Roberto mentre lavora e nella foga del momento gli dico senza preamboli “sono incinta”, il ginecologo stupito lo conferma.
Che gioia dirlo ai miei genitori, andando al ristorante e facendo apparecchiare un posto in più, per poi dire ai miei :
“Ops … è un po’ presto, arriverà tra circa 9 mesi”!
Tutte le mie amiche che vomitano o stanno male e io nessun sintomo indesiderato, una voglia matta per le carote crude grattugiate e niente nutella, io che ne mangio a cucchiaiate senza sapermi controllare.
La pancia cresce, le visite si susseguono senza problemi e con lo stesso rituale iniziale “mi raccomando non vogliamo sapere il sesso”, i nomi già scelti, i vestitini “riciclati” della famiglia, la scelta della carrozzina.
I controlli sempre perfetti. Non li approfondiamo perché la morfologica e il tri test sono nella norma e poi io ho sempre affermato “se anche avesse qualcosa mica posso abortire”, perché Giacomino – il suo nome mentre era nel pancione- si è cominciato a muovere prestissimo, e si muoveva sempre con le canzoni di Elisa e Tiziano Ferro, ma una canzone lo rendeva particolarmente felice: e scopro cos’è la felicità.

Tu sei l’ attesa
Sei la sorpresa
Tu sei una sfida
Sei arrivata per cambiare tutta una vita
Sei la pazienza

[…] E quando sorridi scopro cos’è la felicità

E arriviamo a metà del 6° Mese.
La prescrizione di stare a riposo, poi il nuovo controllo e il ricovero in ospedale per 3 settimane.
Quanta ansia, quante lacrime per la paura di perdere il mio Giacomino, la paura che i polmoni non si sviluppassero, le continue contrazioni , poi la dimissione, giusto in tempo per il corso preparto “tutto concentrato in un giorno” e l’arrivo dei futuri nonni che si sono subito attivati per preparare la cameretta.
E poi alla 35° settimana la corsa in ospedale, ops … Giacomino vuol uscire a tutti i costi, ma è troppo presto, arriverà Roberto in tempo?
Epidurale ? Sì sì, le cose si fan complicate, si decide per il cesareo d’urgenza, e Giacomino viene alla luce … eccoti, piccolo mio, sei un maschio, sei EMANUELE, e mentre ti appoggiano 30 secondi sul mio petto mi viene in mente un pezzo della nostra canzone:
“c’è un oceano di motivi per esser felice / e se ti senti stanca dimmi “vai piano” e andrò piano”.
Chissà perché l’ho pensato.
Ma Emanuele è già via, lo portano in osservazione dato che è nato con un mese abbondante di anticipo. Roberto va a trovarlo e torna dopo… quanto? Boh, non lo so, sono stanca, dopo tutto ho partorito, non mi accorgo di nulla quando torna e mi dice che va tutto bene, di riposare. Lui aveva già capito, e io passo le 2 ore successive a sonnecchiare e a mandare messaggi, finché il ginecologo entra e mi chiede il numero di mio marito e subito dopo esce.
Rimango così, in una stanza d’ospedale, a pensare al peggio.
87 minuti, 87 minuti è durata la mia agonia e poi il dottore è entrato con il mio batuffolo e dandomelo in braccio, mi ha detto “Emanuele è sano –sospiro di sollievo -, ma pensiamo che sia Down”.
sindrome di down

“La vita è cattiva, cattiva veramente. La vita è uno schifo. Perché proprio a me?”
Ecco, questo ho pensato quando il dubbio e poi la certezza hanno dimostrato che Emanuele aveva la Sindrome di Down.
Quanto male ho provato, quanto dolore, intensificato dal non poter tenere il mio piccolo accanto a me, perché doveva essere tenuto sotto controllo.
Quante lacrime, quanti perché senza risposta e la sensazione di sentirsi fuori posto: tutte quelle mamme felici, stanche, stanchissime, ma felicissime, tutti quei sorrisi e quelle congratulazioni.
I ricordi più vividi di quegli 11 giorni in ospedale sono 3: il continuo chiedere scusa a mio marito per avergli dato un figlio “non perfetto” , l’ abbraccio di mio padre, uomo tutto d’un pezzo, con gli occhi lucidi, mentre mi sussurrava “andrà tutto bene, siamo qui”, quell’ infermiera così rigida e arcigna che, dopo 3 giorni da incubo, ha insistito per mettermi in un posto tranquillo e appoggiare Emanuele su di me, pelle contro pelle, nonostante i cavi e il protocollo rigido.

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E intanto quel piccolo scricciolo di 44 cm mi fissava con quegli occhi ancora blu, con quella cresta che insinuava il dubbio che non esistessero il “tutti i bambini Down sono così bla bla bla” , come descritto nei siti.
Quella cresta è rimasta scolpita in me, ha scavato un solco dentro, che sta sgretolando quella negatività che si era accumulata e che a volte torna prepotentemente.

Non sono una super mamma: ho momenti no, momenti molto no, e momenti in cui mi dico “perché”?
Sono una mamma pasticciona, che inserisce gli appuntamenti sul cellulare, ma che ha bisogno anche di segnarli a penna sul calendario in cucina, mi sento fortunata nell’ aver trovato persone competenti sul nostro cammino, nell’ essermi imbattuta in un sito che mi ha rinCUORato, nell’aver conosciuto tante persone che hanno un cuore e un animo gentile.

Ho cominciato a rialzare la testa il 14.10.2015: il giorno del mio compleanno, quando Emanuele, mentre faceva un odioso esercizio, e io lo guardavo impotente, ha alzato la sua testolina e, guardandomi, mi ha sorriso.
Un sorriso timido, ma pieno d’amore. Un amore per la sua mamma. Quel sorriso è stato il regalo più bello che potessi volere.

Amo mio figlio, amo il suo essere guerriero, la sua caparbietà, amo il modo in cui mi sta tirando fuori la voglia di combattere per lui. Lo amo anche perché ora, dopo 15 mesi, quando vedo i figli di amici, coetanei di Emanuele, che fanno più o in modo migliore cose rispetto a lui, penso “a ognuno il suo piccolo angioletto”.

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Io sono semplicemente una mamma che si arrabatta per far vedere al mondo che Emanuele può e vuole vivere una vita piena, sono una mamma che ha scoperto quanto possa essere meraviglioso leggere una fiaba al proprio figlio, trasmettergli la passione per i libri e la musica e che si  intenerisce vedendo quanto questo figlio ami anche i motori, come il suo papà.
Con un figlio non comune si rallenta, si cercano nuove strategie, si leggono libri di notte per vedere come intervenire precocemente.
A volte vorrei avere un Emanuele senza il suo sassolino nella scarpa, ma quando la tempesta è passata mi chiedo: sarebbe lo stesso Emanuele?
E la risposta è no, perché, sotto quei tratti caratteristici della sindrome, batte un cuore di un bambino unico e speciale.
Quella ragazzina di 26 anni non c’è più: c’è una donna che guarda il mondo con gli occhi di un bambino a mandorla e sogna con lui un mondo di fiducia e di opportunità per tutti.

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