Io ti vedo. Ma non mi servono gli occhi per farlo.

Esco da un fine settimana di formazione personale del corso di pratica psicomotoria che sto frequentando che mi ha profondamente scosso.
Avrei voluto scrivere di getto ciò che ho provato, metterlo nero su bianco prima che le immense sensazioni provate nel corpo perdessero di intensità, ma non mi è stato possibile. Quando si hanno bambini che frequentano la comunità non si può mai essere immuni da nottate in bianco non programmate causa febbre e altri sintomi influenzali.
Oggi Emma sta meglio, e in quest’ora libera durante la quale l’ho lasciata a correre in bici a casa della nonna, mi siedo davanti al mio portatile, cuffie alle orecchie, la prima canzone della playlist del sito in funzione repeat.
Spesso uso la musica per ispirarmi. Spesso mi siedo davanti al computer e non ho nemmeno idea di cosa andrò a raccontare, e la musica riesce a portarmi dove vorrei arrivare.
Chiudo gli occhi… e provo a rivivere ciò che ho provato.
Solitamente i nostri incontri di formazione personale sono divisi in 2 gruppi, per motivi di spazio della sala, ma questa volta eravamo tutti insieme in una palestra, assolutamente vuota, nessun materiale psicomotorio che in qualche modo ci potesse suggerire cosa fare.
Noi e lo spazio.

La nostra formatrice ci ha chiesto di bendarci, in modo che il nostro procedere nello spazio fosse assolutamente casuale, dove ogni incontro/scontro con l’altro non ci potesse fornire alcuna informazione su chi fosse la persona.
E in un gruppo di 30 persone, non tutti ci vanno a genio. Qualcuno lo possiamo sentire molto affine a noi, qualcuno quasi indifferente, per qualcuno potremmo quasi provare avversione.
Ma è questo lo scopo del nostro percorso di studi… accogliere l’altro nella sua totalità, senza preconcetti.
E’ stato strano procedere in un luogo così vasto, senza nessun riferimento spaziale, tanto da perdere ogni confine, ogni progetto di percorso visualizzato nella mente. Per 4 volte ho cercato di arrivare al materassone partendo dalla panchina, e per altrettante volte mi sono ritrovata a toccare una parete diversa da quella che credevo.
E’ questa la sensazione che prova un non vedente?
Muovevo le braccia in avanti, mentre appoggiavo i piedi scalzi, o li facevo strisciare per meglio sentire il terreno, sentivo i respiri dei miei compagni, i loro sussulti quando incontravano qualcun’altro.
Quel mio procedere incerto era sostenuto dalla fiducia che la nostra formatrice ci infondeva con le sue parole, con il suo tono, e quando ci è stato chiesto di metterci a terra, strisciando sulla schiena, allargandoci e allungandoci finchè non trovavamo qualcuno, ho nuovamente sentito quanto gli altri sensi si potessero acuire, in mancanza del senso vista.
Quanto ci dice, la vista, di chi abbiamo di fronte?
Dopo quest’oggi credo ci dica ancora più di quanto crediamo.
Ho incontrato due mani, e con queste due mani ho iniziato a parlare, senza usare nessuna parola.
Non ho riconosciuto le persone alle quali quelle due mani appartenevano, non subito almeno, ma ho presto capito che appartenevano ad un uomo e una donna.
Essendoci stati presenti solo 2 compagni al corso, e sentendo la dimensione della mano, mi sono subito fatta un’idea di chi fosse.
Non era facile parlare ad entrambe le mani, dividermi e dire quanto volevo prendermi cura di loro, comunicare quanto volessi dire attraverso una carezza, uno sfiorare, un lasciare per poi tornare.
Ho avverito nella mano femminile una certa sensazione spiacevole, quasi volesse sfuggire al mio tocco, e l’ho rispettata, ma nella mano maschile… ho sentito un fiume di parole.
Non c’era malizia alcuna in quel tocco, solo ascolto, riconoscenza, e parole. Parole senza un senso logico, se cerchiamo di interpretarle con la mente, ma colme di significato se decifrate attraverso il senso del tatto.
E ancora… quanto ci dice, la mente razionale, della persona che vediamo?
Per quanto diciamo di non crearci preconcetti, per quanto diciamo di essere aperti mentalmente, gli occhi ci anticipano, decifrano, codificano, classificano, e ci rimandano un messaggio.
Sono andata alla pausa pranzo con i miei compagni, con il cuore in subbuglio, perchè avvertivo che qualcosa era in movimento, un cambiamento, anzi… una trasformazione.
Di nuovo bendati, di nuovo a vagare nello spazio vuoto, di nuovo quella strana sensazione a cui ora potevo dare un significato: non mi interessava chi avrei avuto di fronte, non avevo smania alcuna di saperlo, avrei accettato anche la persona a me meno affine, e le avrei parlato attraverso quel nuovo modo di parlare, che era fatto di emozione e di flusso di energia.
Quando ci siamo trovate, abbiamo proceduto insieme, in un tempo infinito, in una dimensione quasi parallela a quella reale. Procedendo entrambe bendate, prendendosi cura l’una dell’altra per non cadere, o non scontrarsi troppo, ruotando, correndo, fermandosi.
E una volta ferme, l’una di fronte all’altra, ci siamo sentite.
Le nostre mani ci rimandavano informazioni su informazioni, le parole che mi arrivavano erano legate solo a sensazioni, ed ogni movimento era armonioso, leggero, impercettibile ma allo stesso tempo solido.
Toccando la pelle, la parte del viso scoperta, i capelli, ancora una volta non ho dato un nome alla persona, e ne sono stata felice, perchè non volevo che quel nuovo linguaggio assumesse un significato concreto e conosciuto.
Ho iniziato a piangere su un immenso sorriso, quelle lacrime belle che tanto spesso mi escono quando l’emozione che provo è troppo grande da essere contenuta.
E quando ci siamo tolte la benda, tentennando ancora un momento ad occhi chiusi, e l’ho vista… ci siamo abbracciate strette, fondendoci ancora una volta in quell’enorme emozione che ancora danzava intorno a noi, stupendoci insieme di quanto ci eravamo dette con il non verbale, stupendoci di come la via del corpo fosse stata la via per le nostre emozioni (cit. B. Aucouturier).
Quello che ho provato si esprime nella frase del titolo, io ti vedo, frase che nel film Avatar viene pronunciata  riferendosi alla persona, e significa riuscire a comprendere tutto di essa, il suo spirito e il suo cuore, al di là dell’involucro esterno che essa mostra.
Ma per guardare l’altro senza filtri credo sia necessario innanzitutto guardarsi dentro, e dare un nome a ciò che si prova, riconoscendolo e cercando di superarlo.
Perchè si sta poco a dire guarda con il cuore, ma riuscire a farlo realmente, oltre la disabilità, oltre alla persona meno affine… costa fatica.
E forse serve davvero percorrere strade alternative per riconoscerlo.
Grazie Emma.
Grazie per rendermi una persona in continua ricerca.