Disabile o diversamente abile?

Pensieri in giardino.
Oggi qui da noi c’è una bellissima giornata.
Un sole tiepido che ti invoglia a fare lavatrici, a stendere i panni bagnati sui fili sistemati in giardino, assaporando il profumo che le lenzuola emanano, mosse dal vento. E’ una scena che mi ricorda l’infanzia, la mia adorata zia, alla quale passavo le mollette e che mi rincorreva mentre mi nascondevo tra quelle lenzuola profumate di sapone di marsiglia.

Il post di oggi non vuole parlare di consigli su come lavare i panni ma, come spesso accade, o come mio padre ama dire “durante attività piacevoli e di poco sforzo intellettivo la produzione di pensieri concatenati tra loro permette il crearsi di consapevolezze illuminanti”.
E così oggi è stato.
Il pensiero è volato all’ultima lezione del corso di pratica psicomotoria Aucouturier che sto seguendo, tenutasi da un empatico neuropsichiatra che spesso collabora con le nostre formatrici.
La lezione verteva su termini utilizzati in passato, in ambito clinico (ma anche nel parlato comune) e sostituiti nel DSM5, manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, adottato nel mondo.
Questo modificare i termini relativi ad alcune patologie ha lo scopo di eliminare uno stigma sociale che oggi viene combattuto, al fine di non creare “categorie di persone”.
Maniaco-depressivo diventa disturbo bipolare, ritardo mentale diviene disabilità intellettiva.
Tutti i discorsi successivi riguardavano i significati di tali termini, di come un test sul Q.i. andrebbe analizzato (sulla persona, e non solo lo sterile test) e quali elementi sono necessari per com-prendere (contenere in sé, racchiudere, includere qualcuno) l’individuo che abbiamo di fronte.
Ma è sul pensiero con il quale ci ha voluto lasciare il dottore che ho tessuto trame di considerazioni personali, e cioè l’uso di diversamente abile piuttosto di disabile.
La sua personale considerazione, più volte sottolineate come tale, trovava il termine diversamente abile, o diversabile, troppo politically correct, riportando ad un significato eccessivamente “buonista” che quasi cancella la condizione di discriminazione e mancanza di pari opportunità.

Sicuramente il mio disappunto nasce dal fatto che sono mamma di una bambina diversamente abile, o nata con una disabilità, perciò il mio vissuto intralcia la mia obiettività.
Come mamma sento, e non solo con le orecchie, le accezioni dell’uso di alcuni termini, spesso utilizzati in maniera impropria da persone o riferito a persone che non hanno affatto un deficit intellettivo o fisico:
oggi mi sento handicappato
ma sei ritardato/mongoloide?

A dire il vero sentire dire, specie da dottori o esperti del settore, “il down”, personalmente mi disturba di più, perchè involontariamente mi fa visualizzare una categoria di ufo provenienti dal pianeta Down, che lentamente scendono da un disco volante a colonizzare la terra.
Ma forse ciò è condizionato dalla mia passione per un certo tipo di film… ahah!
Sono anche dell’idea che spesso utilizzino quella modalità espressiva per una questione di tempo.
Vuoi mettere quanto tempo riparmi a dire “il down” piuttosto che “persona con sindrome di Down”?
O “autistico” piuttosto che “persona con autismo”?
Ecco. Per me la differenza è proprio lì, nel termine persona innanzitutto, posto prima di qualsiasi aggettivo o diagnosi.
Immagino che l’introduzione del termine diversamente abile, dovesse servire ad dare un messaggio positivo, evitando la discriminazione della persona con disabilià, cercando di mettere il deficit in luce positiva.

Pensandoci bene il termine può suonare bizzarro, visto che in effetti tutti siamo diversamente abili. “Diversamente” sottolinea il differente uso delle abilità.
E’ perciò un continuare a puntare il dito sul termine “diverso” in riferimento a persone che diverse non si vogliono sentire ma che oggettivamente lo sono?
Emma è mia figlia, con le sue specifiche caratteristiche, e non la vorrei diversa perchè senza sindrome di Down non sarebbe più quella Emma, ma le difficoltà legate alla sua condizione genetica sono reali ed effettive.

Credo che il problema fondamentale sia lo stigma legato alla disabilità, che carica ogni parola connessa ad essa di una connotazione negativa.
Perciò un adulto che ha convissuto con questo termine e le sue relative modifiche può prendere una posizione, e scegliere di usarne uno o l’altro in base al suo sentito personale.

Ma un bambino che cresce?
Che ancora non sa realmente cosa sia la disabilità ma nota le diverse abilità dell’altro?
Ebbene, per queste piccole nuove menti spero ci sia accanto a loro un adulto che semini nel modo giusto, facendogli riconoscere innanzitutto l’unicità di ogni persona.

Concludo riportando la dedica posta in prima pagina del bellissimo albo illustrato “mia sorella è un quadrifoglio
“A quei bambini e a quei grandi che non si accontentano di essere uguali,
e che non hanno paura di essere diversi”.