Non ti do per scontato.

“Non voglio farlo, e se a volte tu hai l’impressione che io lo faccia, te ne prego, fammelo notare.”

Un bambino dai bisogni speciali può assorbire il tempo dei genitori.
Anzi, può assorbire i genitori stessi.
Tanto da rendere invisibile il fratello nato senza difficoltà, il cosiddetto sibling.
E per quanto un genitore pensi alle conseguenze di determinate frasi e azioni, sia consapevole di come un prendere a priori le difese del bambino più debole crei ferite difficilmente rimarginabili, organizzi occasioni di tempo di qualità con esclusivamente il bambino senza handicap… è pur sempre il sentire del bambino, del fratello nato sano, e quel suo sentire non mente.

Ricordo l’esempio sentito ad una serata formativa per genitori, relativa alla gelosia tra fratelli.
La pedagogista diceva : “Immaginatevi cosa sente il bambino, primogenito, che fino a poco fa aveva i genitori tutti per se, insieme alla loro totale attenzione e dedizione, una volta spodestato da quel trono.
E per meglio capire, immaginatevi questa situazione: vostro marito, arriva a casa,  e sorridendovi con amore, tenendovi le mani nelle sue, vi dice : tesoro, presto arriverà un’altra donna qui in casa. E’ vero, io dovrò dividere il mio tempo, i miei spazi, me stesso con lei, ma non temere, amerò entrambe nello stesso modo!”

Bam.
Fa effetto vero?

Con quella frase indelebile nella mente ho cercato di crescere i miei figli.
Ad ogni frase di complimento per Emma, magari detta da altre persone, ce n’era una mia pronta per Tommaso, per lodarlo, per non farlo sentire messo in disparte.
Gli eccessi di Emma, bambina sì con sindrome di Down ma pur sempre bimba con una gran consapevolezza di sè, che vorrebbero nutrire il suo ego ed essere al centro dell’attenzione, vengono da noi smorzati, minimizzati, ignorati proprio per non entrare in quel rovescio della medaglia che spesso si mostra nei confronti di un bambino con disabiltà: ti concedo perchè tanto non puoi fare altrimenti.

Se Emma vuole essere messa a letto da me, e poi cambia idea e vuole Giovanni, che nel frattempo è con Tommaso, “spiacente ragazza, avevi scelto, ora papà è con tuo fratello, quando ha finito viene a darti un bacio”.
Crudele? Ho forse un cuore di sasso che non si scalfisce nel vederla piangere disperata per un no?
Più volte mi sono ascoltata il cuore, o meglio la pancia, che in queste occasioni resta neutra e in pace, e mi fa restare della mia idea. Perchè essere coerenti è necessario.
Ma come dicevo, il sentire di ognuno di noi è personale, e non sempre le nostre strategie e risposte sono quelle che il figlio desidera, inconsciamente, sentirsi dire.
Il mio aver lodato Tommaso, come bambino brillante e capace (cosa verissima eh) lo ha reso poco predisposto al cambiamento, spiazzato di fronte all’errore o al metodo diverso proposto.
Io mio averlo messo nell’angolo della riflessione, in un età in cui non poteva pensare affatto, tantomeno rispondere al perchè lo aveva fatto, lo ha portato a crearsi delle rigidità corporee.
E’ vero, parlo molto con lui e con Emma, li reputo capaci di capire e di gestirsi gli spazi senza dover intervenire, ma i miei errori li ho fatti e li faccio.

Una sera, mentre eravamo in bagno tutti insieme, (con un unico bagno in casa non sempre i tempi di ognuno possono essere rispettati), lo vedo particolarmente coccoloso, ma con l’occhio triste.
Io sto leggendo ad Emma una favola, e lui, guardando Emma e accarezzandola, mi dice:
Emma è più importante di me“.

Lama nel cuore.

Tommaso…
Sì, lo so, lei è più importante
Cerco di sorridere stupita (o stupida) a questa sua affermazione e gli dico che è lui il primogenito, che lui resterà sempre il numero uno, il mio figlio maschio preferito (…!), ma vedo affiorare le lacrime, che prontamente ricaccia giù.

Doppia lama nel cuore.

Per il messaggio. Ma anche per essere riuscito a dirmelo.
Tommaso, finisci di prepararti, metto a letto Emma velocemente e vengo su da te… che ne dici?
Sì…
Continuo a fare le cose con queste sue parole nelle orecchie, e penso al discorso da fare, o almeno ci provo.
Nel suo caldo letto, abbracciati a cucchiaio, che non è una posizione del kamasutra ma serve a non essere troppo invasivi nel chiedere di parlare, di aprirsi, senza che occhi indagatori osservino.
E lui si apre.
Mi dice che sono spesso via per il corso, che gli manco, che la Emma ha più modo di giocare con me, che io dedico più tempo a lei che a lui.
“E’ vero Tommaso, la sindrome di Down di Emma a volte mi costringe ad essere più di aiuto a lei, perchè non è che Emma è più importante, ma ha, per ora, più bisogno di aiuto per poter poi fare da sola”.
“Sì… ma…”
“Dimmi… cosa vorresti?”
“Che tu giocassi di più con me… solo con me.”
L’ho abbracciato stretto, e mi sono tornate alla mente i pianti che vedevo fare a mia sorella durante la mia infanzia, e a come un fratello e una sorella debbano per forza condividere “l’oggetto del loro amore”.
E gli ho chiesto scusa, scusa per aver dato per scontato che non avesse più bisogno di giocare con me.
Il suo sciogliersi al mio abbraccio e alle mie parole erano la risposta che volevo.
“Tommaso… ti ricordi quando l’anno scorso siamo andati da Cristina? Lei vi faceva raccontare usando le fiabe e il disegno, a te e altri bambini. Ti piacerebbe ritornarci?”
Il suo sì è stato immediato.
“Però ti devo anch’io chiedere una cosa Tommaso. Giocare insieme significa essere insieme senza tv, o videogiochi. Significa fare qualcosa che piace ad entrambi. E a volte la stanchezza, sia mia che tua, fa stare sul divano. Un po’ di gioco, ogni giorno… d’accordo?”
“Sì… “
“Ti voglio bene Tommaso”.
Tommy non risponde.

Ma dopo una settimana di piccoli giochi fatti insieme, un lavoretto di pittura, una caccia al topo nella casa disabitata accanto con tanto di visore notturno, sabato scorso, ho avuto risposta.
Allontanatami dal computer che stavo usando per fare una relazione per il corso di pratica psicomotoria, quando torno, alla fine della riga che stavo scrivendo, vedo scritto
“ti voglio bene mamma”.

E lo sguardo sorridente di mio figlio che incrocio con il mio, ha i mille colori dell’arcobaleno.