img_0602C’era una volta, una grande struttura in riva al mare, che ospitava una multitudine di persone, dai colori e caratteristiche personali più disparati, perchè chi l’aveva creata credeva nel significato del termine accogliere.
22 anni fa vi arrivò un dottore, e con sè portò 15 famiglie provenienti da qualsiasi parte d’Italia (e non solo), per poter essere faro nel loro mare di domande, insieme a terapisti preparati a guardare oltre in brevissimo tempo.
Pochi denominatori comuni a tutti i genitori: la sindrome di Down dei propri figli, le silenziose domande dei siblings, i loro sguardi carichi di sfumature piene di significato.
La settimana estiva per famiglie di bambini con sindrome di Down a Bibione (Ve) ha un suo sapore. Un sapore fatto di pochi confort, di una cucina spartana, di polvere e sabbia che per quanto pulisci quei saloni ti si appiccica ai piedi scalzi.
Ma oltre a questo, che non è altro che ciò che solitamente vediamo con gli occhi, c’è tutto l’invisibile, che ti assale e investe dentro.
Io quel sapore lo conosco bene.
Una volta assaggiato… non ne puoi fare a meno.
Ti si crea una sorta di dipendenza.

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L’ho provata nell’estate del 2011, alla mia prima esperienza, mentre osservavo l’incerto procedere di Emma che si spostava con il sedere su quei terreni poco curati, e creavo i primi duraturi legami tra genitori.
L’ho riprovata l’anno successivo, con una maggiore consapevolezza nei confronti delle risorse dei miei bambini, e anche delle mie, addentrandomi sempre più in un mondo che, giorno per giorno, sentivo calzarmi alla perfezione.
Un mondo imperfetto che spesso si esprime senza le parole, ma attraverso tocchi, sguardi, occhi profondi, sorrisi, mimica facciale, abbracci senza inizio e senza fine.

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Ma è stato quando il dottor Lagati mi ha proposto di seguire il gruppo genitori, per la prima volta l’anno scorso, che ho capito quanto volevo rendere importante il significato di essere gruppo.
Un gruppo composto da singole persone, ognuna carica di differenti domande: quale tipo di metodo, o cura, o consiglio, quale aspettativa, condivisa o infranta, quanto tempo, o quale risposta, o quale aiuto… per i nostri figli… o forse… quale aiuto per noi?
Ma quale risposta mirata, perfetta e combaciante alla nostra domanda, può portare ad un risultato, ad un cambiamento, se la nostra corazza esterna è spessa? A volte permette a quella risposta di entrare, ma se non trova lo spazio necessario per dilagare, come può portare ad una trasformazione?
Barriere e barriere, create negli anni, volute o costrette, che non ci permettono più di sentirci veramente, di giocare,  di alleggerici.
Siamo genitori, figli, siamo professori, dottori, infermieri, avvocati, imprenditori, maestri.
Siamo aspettativa, siamo porto sicuro, siamo efficienza, siamo tutti d’un pezzo.

Non qui. Non in questa settimana.

Qui possiamo essere semplicemente noi stessi.
Il nostro nudo bambino mostrato senza la paura di essere giudicato. Libero, senza freni, rinvigorito.

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E non c’è più differenza tra noi. Solo il nostro essere bambino che vuole continuare a giocare, per sentirsi, di nuovo, leggero.

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E il gruppo si apre, mostra, racconta, propone, rafforza. Perchè quello stesso gruppo parte da dentro di noi, e può essere ritrovato ovunque, basta fare quel primo passo verso l’altro.

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Platone diceva: “Si può scoprire di più su una persona in un’ora di gioco, che in un anno di conversazione.”

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(Mettete pausa nella playlist a fondo pagina per ascoltare i video)

https://www.youtube.com/watch?v=wfGNlBQ-b88

https://www.youtube.com/watch?v=VeF4SxPy1Pw

Questi momenti condivisi grazie al gioco di cooperazione, non vogliono essere un percorso di psicoterapia di gruppo, perchè non ne ho assolutamente la competenza, ma prendendo spunto dal mio percorso di studi triennale in pratica psicomotoria Aucouturier, vogliono far provare all’adulto altri punti di vista.

Punti di vista che parlano di lentezza, di attesa, di ascolto di se stessi e dell’altro, di cura imposta o condivisa, di riflessioni sul modo di esporre una richiesta, e del contesto nella quale essa viene eseguita.

Spunti su di noi, di riflesso, su nostro figlio. Sui nostri figli.

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E in quella storia creata con le mani che passavano attraverso il cuore, la vostra settimana rappresentata.
Un nuovo inizio, un punto di arrivo, una speranza, una certezza, un ricordo, un augurio.

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Una storia comune, legata da un filo, unita da tante piccole storie personali, complice l’esservi così tanto intrecciati in questi giorni. Nel corpo, nelle risate, nelle lacrime, nel non sentirsi in obbligo di chiedere scusa se commossi, o non pronti per parlare.

Semplicemente voi stessi.

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In 6 giorni avete coniato un nuovo termine: la Bibionenza. E ognuno di voi gli ha dato il suo personale significato.

“Quell’insieme di emozioni, esperienze, condivisioni che si provano nel conoscere persone straordinarie di cui non si può più fare a meno. Di qui la dipendenza”

“la capacità di trasmettere alle persone energie provenienti da altrettante persone che a loro volta non conoscono il possesso di tali capacità”

“il prendere coscienza della propria forza grazie all’energia e alla determinazione di un gruppo”

“l’empatia, la capacità di condividere pensieri che forse non avrebbero potuto essere espressi, il mettersi a nudo e trarre forza dal gruppo donando a propria volta”

“l’effetto che consegue dallo stare a stretto contatto con persone che vivono e capiscono il mondo. E’ un espressione vivace e giocosa, ricca di amore e solidarietà e compattezza, un piccolo dono da trasmettere alle persone”

“prende spunto da dipendenza e resilienza, dalla scoperta delle proprie risorse personali che si alimentano,  fortificano e perdurano grazie alla forza del gruppo”

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Io ne sono già contagiata. Ogni anno sempre più.
E questo contagio, mi fa sentire benissimo.[/fusion_builder_column][/fusion_builder_row][/fusion_builder_container]