La settimana estiva per famiglie di bimbi con la sindrome di Down che organizzo per il secondo anno di seguito, si è conclusa il 2 settembre.
In quella settimana ho cercato di dare il 110% di me, dalle otto del mattino a l’una di notte, e il recupero dell’energia questa volta è stato più lungo del solito. Qualcuno mi dice che è colpa dell’età, e non metto in dubbio che con il passare degli anni questo possa capitare, ma io sono convinta che il reale motivo sia un altro.
Prima di partire, improvvisando ipotetici discorsi di benvenuto o ricreando immaginari incontri con il gruppo, mi sono chiesta: “di cosa hai più bisogno, tu che partecipi a questa settimana?”
Se dovessi rispondere come la mamma che ero 7 anni fa, quando io stessa partecipai alla mia prima Settiman Estiva, direi “vorrei avere spunti concreti per crescere al meglio mio figlio“, e come pensiero non pronunciato ma pensato, aggiungerei “ho bisogno di aggiustare il mio bambino“.
Ma se ho accettato di portare avanti quanto creato da oltre trent’anni dal dottor Lagati, è proprio perchè la mia risposta di oggi è totalmente diversa da quella scritta sopra.
Molto è cambiato da quel lontano 2012, soprattutto è cambiato il mio punto di vista sulla sindrome di Down, non più percepita come un mostro da combattere ma come una caratteristica di mia figlia. Ho volutamente abolito l’uso di verbi come “combattere, lottare, sostituire, dover fare”, che cuciti addosso alla trisomia 21 mi creavano un profondo disagio misto ad una perpetua sensazione di non riuscire mai a fare abbastanza. Ho lasciato spazio all’osservazione di mia figlia e ho colto la lentezza di Emma, come un’opportunità per me.
E come può capitare quando non si è nel continuo fare perpetuo, ma si resta in ascolto con l’intenzione che qualcosa di buono arrivi, ecco l’opportunità di iniziare il triennio in psicomotricità.
E ho capito che quella che doveva essere aggiustata ero io.
Non con una semplice colla stick da posizionare qua e là, perchè ogni suo tocco sgretolava le poche zone concrete e stabili che credevo di avere. Per lungo tempo mi sono sentita fatta di argilla, secca e fragile, che fingeva di essere stata cucinata in forno adatto, in modo da durare così, forte negli anni. Così forte da avere addirittura la presunzione di essere già in grado di aiutare gli altri.
Quanto mi sbagliavo.
Ci sono voluti 3 lunghi anni per trovare la colla adatta, 3 anni nei quali ho percepito miriadi di sensazioni, ben più profonde delle emozioni. Alle emozioni si può dare un nome e in qualche modo confinarle in qualcosa di conosciuto, le sensazioni sono percepite a livello più inconscio. E le mie sensazioni avevano radici lontane, fino all’infanzia, legate a ferite dimenticate che avevano però solcato una traccia corporea.
Custodisco con cura il ricordo indelebile di quel giorno di formazione, in palestra, trenta persone bendate, e di come quelle meravigliose e intense e delicate e forti e profonde sensazioni vissute senza l’uso della vista, ma solo con il con-tatto, mi avessero commosso continuamente. Poi, una volta tolta la benda, la scioccante sorpresa di vedere la persona con la quale avevo meno sintonia. Anzi, una sorta di rifiuto.
Ci ho rimuginato per giorni e giorni, e ho iniziato a sperimentare la mia capacità di insight, ossia la capacità di vedere dentro una situazione e dentro sé stessi, avendo la consapevolezza dei propri sentimenti e delle proprie emozioni.
Mi sono detta “prima di trasformare gli altri devo trasformare prima me stessa, partendo da un punto di vista diverso“.
Quindi, se mi venisse nuovamente posta la domanda “di cosa hai più bisogno, tu che partecipi a questa settimana?” oggi risponderei :
di vedere con occhi nuovi ciò che ancora non mi è possibile vedere.
Occhi senza aspettative predefinite, ma pronti a stupirsi per quello che ti vedo fare spontaneamente, se riesco a comprenderti, che significa prendere con.
Senza che io sia costantemente impegnata a mettere dentro di te informazioni e concetti.
Senza che ogni momento che passiamo insieme sia speso per riempirti di cose che io ritengo buone e utili per il tuo crescere.
Senza che ti controlli e aggiusti di continuo, nella tua postura e nella tua forma.
Senza che ti blocchi nel fare perchè so che fallirai.
Chiedendoti il permesso prima di agire su di te, anche se fosse solo per soffiarti il naso.
Lasciandoti tempo e spazio per sperimentare, trovare il tuo equilibrio, fissare le tue personali abilità, mostrandoti uno specchio che parla di fiducia.
Altrimenti … quando ti darò la possibilità di mostrarti realmente a me?
Nel mio spero costante ascolto empatico con voi ho cercato di mettermi nei vostri panni, condividendo i vostri vissuti e la vostra percezione emotiva.
E mentre vi ascoltavo raccontarvi a me facevo attenzione al mio sentire e alla cassa di risonanza emotiva che mi trasmettevate, cercando di infondervi quella sorta di benessere che il reale ascolto può procurare.
E mentre giocavate e vi mostravate a me di nuovo ponevo l’accento sull’importanza di quella memoria corporea che è necessario toccare, memoria che solo in un contesto esperienziale viene attivata.
Tutto questo ho cercato di comunicarvi con quel 110% di me. Qualcuno mi ha detto che sono stata io il catalizzatore per capire che si può imparare a guardare con il cuore, ma io so che tanta magia è stata possibile soltanto grazie ad ognuno di voi.
Grazie di cuore. Esco a mia volta arricchita da questa enorme esperienza, ancora una volta consapevole che per trasformarsi è necessario sentire nel profondo.
Vi voglio bene Gruppo.
Trattate le persone come se fossero ciò che dovrebbero essere, aiutatele a diventare ciò che sono capaci di essere.
Goethe