Da tempo ti guardo figlio mio.
E mi interrogo.
Vedo che cresci, e di sicuro non mi riferisco all’altezza.
Si chiama pubertà? Preadolescenza?
Si chiami con qualsiasi nome, ma vedo che stai cambiando.
A volte è uno sciogliersi nel mio abbraccio, a volte è uno sfuggire al mio tocco, facendotelo quasi scivolare via dalla spalla.
Vedo i tuoi silenzi, il tuo commentare un qualcosa fatto senza di noi con uno sbrigativo “bene, tutto ok“.
E mi arrovello.
Perchè il problema è mio. Io che racconto tutto ciò che mi accade durante la giornata, a volte abbondando di particolari.
Io mi devo adattare a te, rispettare il tuo modo di esser-mi diverso.
A volte la conoscenza crea problemi, problemi che di sicuro non risolvi con l’ignoranza, (come diceva Isaac Asimov), ma fa nascere continue domande e quesiti sul tuo essere genitore in relazione, in ascolto.
Genitore di due bambini, totalmente differenti tra loro.
Vedo Emma crescere, e camminare con un’andatura che parla di come la vedo porsi positivamente al mondo.
Vedo il tuo camminare, un po’ rigido, un po’ sulle punte… quali tracce emotive importanti sono segnate nel tuo corpo, che sempre parla di un immenso mondo interiore?
A volte ti sento chiedere sommessamente “non va bene così?” o ti vedo ingoiare una lacrima per un, a mio avviso, minuscolo sopruso familiare.
Ed è di nuovo il mio sentito a parlare.
E di nuovo mi interrogo.
Ti posso stare vicina, in silenzio, parlandoti, o ti devo lasciare spazio e silenzi?
E non mi riferisco all’autonomia, che ormai io e papà ti riconosciamo da tempo, ma proprio al tuo crescere con le tue caratteristiche.
Quanto lasciarti andare facendoti capire che comunque ci siamo per te?
Continue domande, continui aggiustamenti, sperando che la risposta verbale e tonica datati o mostratati sia quella necessaria per farti crescere.
Ma crescere come? Come speriamo tu diventi, o come è giusto che tu diventi, rispettando la tua unicità?
Tante domande che a volte creano una sorta di troppo pieno, e allora serve svuotare un po’, facendo calare il senso di responsabilità.
L’occasione mi è stata data con l’arrivo di Nick Vujicic in Italia.
Veronica, un’amica d’anima affine mi ha regalato i biglietti, e al mio desiderio di venire a Torino, in una sorta di piccola pazzia per il costo e il poco tempo a disposizione, tu hai subito detto di volermi accompagnare.
Ti ho guardato in silenzio, pesando quel tuo sì, pensando a come ti avrei parlato di Nick, ma mi hai anticipato dicendomi “mamma io Nick lo conosco già, mi hai mostrato dei suoi video. Ho voglia di conoscerlo… e di abbracciarlo!”.
Troppo pieno, troppo pieno. Svuotare.
Leggerezza.
E ho fatto posto in me per accoglierti Tommaso, in questo piccolo breve ma potente viaggio dedicato alle emozioni.
Un viaggio solo nostro.
I passatempi in treno, i miei trabocchetti per farti domandare le cose in prima persona, lo sbagliare stazione, il correre con la valigia per fermare l’autobus 64, il tuo sguardo sbigottito di fronte all’aperitivo alla torinese…
La passeggiata in centro, la capatina alla Rinascente, il ristorantino…
Al Pala Ruffini c’è già una lunga fila di persone che attende di entrare, casualmente siamo proprio vicini a Veronica e subito si respira aria di festa, di cuori aperti che vogliono vivere un’emozione grande che perdurerà nel tempo.
Il palazzetto è quasi tutto pieno, si parla di 4000 persone presenti.
Ti vedo osservarti attorno, notando i tanti colori delle persone con disabilità presenti, decine e decine di differenti caratteristiche che rendono ognuna di quelle persone uniche.
Ad ognuno di loro sorridi, quel tuo dolcissimo e sincero sorriso, e al mio chiederti “cosa provi vedendo tante persone con disabilità?” rispondi, allargando quel sorriso, “niente più che la normalità”.
L’evento è presentato da un personaggio a me sconosciuto, che non so per quale motivo propone battute fastidiose e fuori luogo, tanto da risultare inopportuno. Forse era una difesa a tanta unicità su quel palco?
Il fastidio viene spazzato via da lei, Simona Atzori, dalla sua grazia nel ballare, dal suo equilibrio, dal sorriso e dalla luce nei suoi occhi.
Conosco anche la storia della bellissima e ironica Giusy Versace, del suo coraggio nell’essersi reinventata dopo quel terribile incidente.
E poi arriva lui, Nick, e tu lo applaudi come avessi visto la tua rock star preferita!
Nick si sposta sul piano di una scrivania, e davvero, nulla è disarmonico in lui, proprio grazie a quel viso così carico di espressioni multicolore. Parla di come non è presente per cambiare le nostre fedi, ma per essere fonte di ispirazione, lui con la sua pesante disabilità, la sua storia difficile, il tentato suicidio in tenera età.
Ma quel sorriso… oh quel sorriso è pura musica! E non puoi non vedere che la sua meravigliosa essenza, al di là di un corpo non proprio canonico.
Parla della sua organizzazione, Compassion, dei 3 figli adottati a distanza, degli altri 2 gemellini di cui sua moglie è incinta, della sua vita immensamente felice.
L’amore in azione, dice, che ha un riverbero positivo, diverso dal dire un semplice “ti voglio bene”. E’ concretamente fare qualcosa per aiutare qualcuno in serie difficoltà.
Raacconta di come mai avrebbe pensato di poter avere una vita tanto felice, mai avrebbe potuto sdrammatizzare la sua condizione con scherzi proposti che si capisce partono da una profonda accettazione di sè:
- ho così freddo che non mi sento più le mani
- nascondimi nel vano porta bagagli così spavento la gente
- mi vesto da pilota di aereo e accolgo i passeggeri passeggiando per il corridoio
- ammicco ad una ragazza seduto in auto, dopodichè compio un giro di 360 gradi, facendole credere di aver contorto sola lo testa
Mai ha pensato che la positività bastasse, senza la sua profonda fede.
“Dai tuoi cocci rotti, se dai loro una speranza, potrà venire fuori una storia meravigliosa. Ho cambiato il mio modo di pensare perchè se non ottengo un miracolo posso essere io un miracolo per qualcuno altro.”
Il suo pensiero lo condivido profondamente, unito al mio stesso desiderio di voler aiutare in maniera concreta, con piccoli e grandi gesti che possano avere un riverbero positivo, proprio perchè la felicità non parte dagli altri, ma da noi stessi.
La sua fede no.
Non l’ho mai sentita mia, forse perchè impostami dalla famiglia, e ammetto che certe scelte religiose le ho fatte per non deludere proprio quella famiglia. Ho apprezzato il suo farmi conoscere che chi è Protestante sceglie di farsi battezzare in età matura, o quantomeno in età coscente per la scelta, e mi sono stupita nel vedere negli occhi di tutte quelle centinaia di persone un credo condivisio, che unisce e da unità.
Ma al suo chiedere alla gente di alzarsi per percepire lo spirito santo, con lui da tramite, o al far entrare finalmente in noi Dio, il tutto in 2 minuti in piedi… questo no, è stonato tanto quanto l’irrispettoso presentatore.
Ho riguardato te Tommaso, che ti dimenavi sulla sedia, che pregavi con lui, pur guardandomi imbarazzato perchè sai come la penso, e ho nuovamente ringraziato Nick. Perchè da quella nostra divergenza è nato un bellissimo dialogo tra me e mio figlio undicenne, sulla libertà di pensiero, sul voler credere o meno, sul voler e poter essere diverso da ciò che la famiglia si aspetta.
Ne abbiamo parlato per tutto il tragitto a piedi fino all’appartamento affittato per la notte, mano nella mano, con te saltellante, ancora carico di emozioni e di ricordi da narrarmi sulla serata appena vissuta. Abbiamo dormito assieme, e mentre ti illuminavo il viso con la luce del telefono, contanto quelle tue lentiggini, ho sentito l’energia che avevamo condiviso, e l’ho sentita potente e duratura, come una scossa azzurra di cui avevamo bisogno entrambi.
Penso a quanto poco si sta a donare il nostro tempo, un tempo vero, a qualcuno che amiamo.
Donare è una sorta di contratto, dove chi dona arricchisce l’altro senza chiedere nulla in cambio. E’ vero, nulla è chiesto, ma ciò che ci viene dato in cambio, è infinitamente prezioso.